Da una domanda fatta ai Registri Akshici dalla mia Maestra Elena Sassetti, è emersa un’informazione molto importante per il collettivo femminile che mi sento oggi di condividere con voi…

Da quello che ci hanno riferito i Registri una delle ragioni di profonda sofferenza e affaticamento che gravano sul nostro collettivo, deriva da una egregora disarmonica e inautentica che è presente nel campo morfico e che riguarda il tema della morte.
Nel mondo contemporaneo, a seguito della caduta e rimozione della connessione con la Dea e con il Sacro, l’idea, il concetto, l’archetipo collettivo della morte ha subito un enorme processo di mistificazione.
Il sacro femminile è intimamente connesso con la Morte, poichè la donna è il canale privilegiato che permette il passaggio dal mondo invisibile a quello visibile, così come da quello visibile a quello invisibile.
Anticamente le sacerdotesse, le iniziate, si preparavano ad accompagnare il momento del trapasso del defunto come ci si prepara ad una nascita. Le “ostetriche della trasmutazione” erano tali perchè sapevano condurre l’anima del defunto attraverso la soglia, il portale d’ingresso del mondo invisibile e nel fare questo accompaganvano il corpo a trasformarsi, sciogliendo i suoi elementi, per ricondurlo alla luce.
La Morte è dunque UNA NASCITA ALLA LUCE, è ancora più importante della nascita, è la vera rinascita, la vera celebrazione, perchè avviene dopo che l’anima incarnata ha percorso il suo sentiero di prove durissime e incredibilmente evolutive qui sulla terra. Questo passaggio viene dunque vissuto come una festa dall’altra parte del velo e il defunto accolto come una persona cara che ritorna a casa a seguito di un lungo viaggio.

La Morte oggi viene invece vissuta come una tragedia che ha dell’irreparabile, come la perdita di ogni speranza e fine di ogni illusione. Ho sempre pensato che una Società fondata sul credo profondo che il fine che l’aspetta sia terrificante, inaffrontabile per la psiche e per questo da rimuovere, non possa che essere una Società psicotica e dissociata. Come si può, infatti, vivere nella piena beatitudine quando il fine ultimo verso cui si procede è visto come un evento inaccettabile? Tutta la nostra Società è impegnata strenuamente a rimuovere la morte attraverso l’esaltazione e la glorificazione dell’Io. Tutto viene fatto di corsa, si corre sempre anche quando non si ha niente da fare, una fuga continua da se stessi e dall’idea della propria impermanenza e mortalità. Fermarsi nella quiete è troppo difficile per l’Io che vede in quella stasi il pericolo della sua dissoluzione, così l’azione continua, cieca e inconsapevole, è il giro sulla ruota che permette di non vedere, non sentire, non essere.
Le antiche sacerdotesse, le antiche psicopompe, sapevano bene che l’essere è un atto simultaneo di vita, morte, vita. Questo movimento triadico in cui è nascosta la legge del paradasso è familiare ai viaggiatori spirituali che sanno di dover morire e trasmutarsi molte volte nel corso della vita, fino ad arrivare temprati all’ultima prova e liberi della paura, proprio come il serpente che ha vissuto più e più volte la sua desquamazione, o come l’aquila che distrugge il proprio becco e si strappa una ad una le penne prima di spiccare il volo in un corpo nuovo. In tutti questi passaggi di morte in vita e di ultima morte, esiste una Dea che ci porta per mano, accompagnandoci negli abissi e vegliando su di noi in quell’intervallo di oscurità totale quando le luci di un mondo si spengono e si attende l’accendersi delle nuove. In quest’anticamera oscura non siamo soli mai, ma, sempre Lei, l’eterna, la venerabile, la sacerdotessa è presente, per sussurarci che anche quell’oscurità è un’illusione, una prova per l’Io che necessita di perdere il controllo e la falsa credenza della sua importanza personale.

Dunque, la morte, il canale finale, il passaggio dal di qua al di là, andrebbe reinterpretata alla luce di queste premesse: come una trasmutazione alchemica del corpo di materia in corpo di luce. La donna che accompagna il morente in questo passaggio impara l’arte della trasmutazione alchemica perchè ha l’onore di vivere il momento in cui le porte del regno celeste si aprono e lasciano in questo mondo la scia della loro luce.
Allora, quest’arte diventa praticabile anche tra i vivi ed è per questo che la donna possiede la capacità naturale di guarire, di sanare e liberare, proprio per la sua vicinanza e identificazione con la soglia.
Che cos’è la magia se non la capacità di trasformare il piombo in oro, la finitezza dell’io in esperienza di assoluto?
Cambiando la prospettiva sulla morte e concependola, nel profondo, come un dono di trasmutazione, è possibile anche liberare le antiche arti di sabiduria e sanazione femminile dal macigno del senso del male, dell’oscuro e del negativo.
Poichè non esiste ombra nell’universo che non contenga la più grande e radiante scintilla della luce!
Con amore e gratitudine
Irene Adi Rahimo Conti